mercoledì 23 ottobre 2019

Se fossimo alberi

Se fossimo alberi sapremmo che, man mano che cresciamo e ci riempiamo di gemme, rami, fiori e foglie ogni tanto dobbiamo perdere qualcosa di noi.

Se fossimo alberi capiremmo che per diverse ragioni qualche ramo si secca, si spezza o viene tagliato. A volte può essere un piccolo ramo secco, a volte un bellissimo ramoscello con fiori e gemme. 


Se fossimo alberi non ce ne preoccuperemmo.

Se fossimo alberi sapremmo che altre volte possiamo perdere grossi rami, pieni di gemme e foglie, rami che cadono improvvisamente o vengono tagliati senza spiegazioni per mille ragioni diverse. Ma anche se abbiamo trascorso tanto tempo e speso tanta energia per far germogliare, fiorire e fare frutti su quel ramo, sapremmo che l'albero rimane vivo, farà altri frutti e rami più grandi ancora.

Se fossimo alberi non avremmo paura neppure quando dovessimo essere ridotti così drasticamente tanto che a vedersi rimarrebbe solo un misero tronco o poco più. Non ci spaventerebbe perché sapremmo che quel dolore di vederci così spogli, ridotti e apparentemente privati di ogni vitaliità sarebbe il preludio per una crescita  ancora pù vigorosa, che genererà nuovi rami, nuove foglie e nuovi frutti ancora più numerosi perché il nostro tronco, nonostante sembri ridotto, sminuito ed annientato, al contrario di come appare si fortificherà ancora di più ed allungherà le sue radici sempre più a fondo.

Se fossimo alberi avremmo la pazienza e l'energia per ricominciare lentamente ogni volta orgogliosi dei nodi che compaiono sul nostro tronco e che portano il segno di tutti quei rami che si sono staccati ma che di fatto rimarranno ancora, nella parte più interna, accorpati per sempre e parte di noi.

Se fossimo alberi invecchieremmo e moriremmo, cambiando sempre e rimanendo sempre noi stessi, cercando di far germogliare fino alla fine quello che scorre dentro di noi, consapevoli che quando non potremo più protendere i nostri rami al cielo sarà il cielo a giungere fino a noi.

Iasser Rosàd Lons 

giovedì 14 aprile 2016

Rumore di fondo

Gli astronomi dibattono ormai da diversi anni a riguardo delle origini e delle implicazioni del cosiddetto "rumore cosmico di fondo", ovvero una radiazione che viene sempre rilevata dai sistemi di rilevamento più sofisticati anche isolando ed escludendo tutte le sorgenti conosciute. 
Mi piace l'idea di associare questo rumore di fondo a ciò che ascoltiamo a volte la notte quando tutti i pensieri e i nostri coinvolgimenti della giornata tacciono temporaneamente.
Insieme con luci, rumori e persone intorno a  noi, tutti i nostri impegni e impellenze o quant'altro tacciono.
Ed è allora che inizia a percepirsi il nostro "rumore di fondo".
Un po' come accade quando l'occhio lentamente si abitua all'oscurità e ci accorgiamo che esistono luci ed ombre che normalmente alla luce della giornata non sono visibili, così il nostro rumore di fondo può diventare sempre più forte e addirittura assordante.
Ed è in quel momento che ci accorgiamo del fatto che il fatto che sia più debole alla percezione non significa che sia in realtà meno importante o meno intenso alla sua origine, proprio come accade per i puntini luminosi delle stelle che riusciamo a scorgere e che testimoniano chissà quale enormità.
Il rumore di fondo è misterioso.
Alcuni astronomi hanno decretato che esso trae origine dai buchi neri, ai confini dello spazio, che continuano ad inviare e trasmettere radiazioni. 
Anzi: hanno emesso in un tempo lontanissimo, proprio all'origine dei tempi, queste onde elettromagnetiche da cui si possono in teoria estrarre informazioni sulla genesi dell'universo.
E' molto affascinante pensare ad un viaggio nel tempo semplicemente osservando, amplificando ed analizzando un rumore di fondo: per gli astronomi è realtà quotidiana...
E il nostro rumore di fondo?
Da quale remoto o remotissimo passato proviene?
Da tempi oscuri, lontani, da un'infanzia ormai irremediabilmente corrotta dall'oblìo e dalla quale svettano solo ruderi di ricordi compromessi, instabili e ormai sopraffatti dal proliferare della vegetazione delle più recenti emozioni, sforzi ed elaborazioni mentali?
O forse addirittura da ancora più lontano?
Di ansie e paure che risalgono all'origine dei tempi quando non esisteva ancora la stella della nostra persona per esempio... 
Quando si stavano formando le galassie delle generazioni precedenti o forse ancora più indietro quando si generava l'universo umano con le sue esplosioni da cui scaturivano nuovi indecifrabili corpi celesti: le emozioni.
Ed inevitabilmente come scorie, residui, oppure proprio come nuovo materialecosmico si generavano quelle che sarebbero state le nostre ansie, paure, debolezze. Irradiate, trasmesse e destinate a percorrere un viaggio lunghissimo: fino ad oggi, domani o forse fino alla fine dei tempi.
Certo è che difficilmente ci può capitare di essere di fronte ad uno spettacolo più affascinante, misterioso e spaventoso di quando siamo noi di fronte al nosro rumore di fondo, dove è presente un po' tutta la nostra essenza primordiale che ci sgomenta, diasbituati come siamo a percepirla e sempre nascosta dal suono assordante delle nostre giornate. 
Ma se solo potessimo renderci conto che nascoste in quel rumore di fondo ci sono migliaia e migliaia di stelle, supernove e quant'altro... bé forse varrebbe un poì più la pena di spegnere ogni tanto le luci per camminare accanto ad un firmamento così spettacolare di emozioni e vita.

venerdì 31 ottobre 2008

Specchi e riflessi

"Amare non è guardarsi a vicenda ma guardare insieme nella stessa direzione".

Non appena ho letto per la prima volta questa frase di A.deSaint-Exupery, l'ho sentita molto suggestiva, come accade molto spesso.

E' una frase abbastanza diffusa e molto evocativa, ma l'altro giorno mi sono fatto un po' di domande.
Stavo facendo i conti con uno specchio stradale (quelli messi prima di strettoie in curva) dal quale non riuscivo a capire se l'auto con i fari accesi che vedevo sulla superfice convessa era la mia o un'altra che sopraggiungeva in direzione opposta.
Mi sono chiestocome mai mi capita così di frequente di non riuscire a percepire esattamente la situazione (cosa che non mi capita per esempio con gli specchietti retrovisori della macchina...)
Mi sono un pochino risposto che forse ragiono un po' troppo e, mi metto un po' troppo spesso "dal lato dello specchio".
Insomma è un po' come se mi immedesimassi in quello specchio e immaginassi che avesse la mia stessa visione.

Quindi se lui vede una macchina alla sua destra (che è la mia sinistra) vuol dire che io ho una macchina a destra (e quindi - sbagliando - penso che ciò che vedo non sono io).

E invece lo specchio sta lì per me e io non dovrei immedesimarmi in lui: sinistra è sinistra e destra è destra.
Basta.
Mi sono chiesto quante volte commetto lo stesso sbaglio con le persone che mi circondano.
Considero il loro punto di vista come se fosse il mio. Considero che loro vedano quello che vedo io.
O magari al contrario cerco di vedere io nella loro direzione, di adeguarmi ad essa.
Perché mi sembra che la cosa più importante per poter avere una comunicazione con loro è guardare nella stessa direzione.
Ed invece a volte forse è importante guardare dal nostro punto di vista gli altri. Guardare loro, dentro.
Inevitabilmente vedere riflessi noi stessi, senz'altro...ma guardarli diritti.
Perché forse a volte anche l'altro ha bisogno di qualcuno che lo guardi, che lo osservi, non solamente che guardi insieme a lui.
Che possa scorgere ciò che lui non vede non solo di se stesso, proprio come lo specchio convesso.
Solo guardando l'altro possiamo vedere anche dietro di lui, alle sue spalle...cosa lo minaccia, cosa lo spinge...Se guardiamo insieme a lui perdiamo questa opportunità.
E inoltre guardando l'altro possiamo scorgere qualcosa di nuovo, di importante, un nuovo riflesso di noi...
E allora mi viene da riconsiderare la frase dell'inizio: guardare insieme nella stessa direzione può essere veramente amore? O forse è necessario anche e soprattutto "guardarsi" (e scoprirsi) a vicenda?

"Allora Gesù, fissatolo, lo amò" (Mc 10, 21)

martedì 23 settembre 2008

Essere liberi

Penso che sul tema della libertà siano scorsi fiumi di discorsi.
E penso che sempre più il tema della libertà ricorra tra i nostri ideali.
Però ci sono tante sfaccettature che sfuggono o comunque rischiano di creare fraintendimenti.
Io credo che abbiamo un po' tutti dei momenti in cui ci sentiamo veramente liberi e forse, se ci fermiamo un attimo, ci accorgiamo che questi momenti non hanno necessariamente molto in comune con i tradizionali concetti di libertà.
Tranne il concetto di assenza di vincoli.
Bene.
A volte il concetto di libertà suscita in me due sensazioni contrastanti.
Un primo aspetto di gioiosità e spensieratezza, di un mondo che si apre a noi perché tutto è accessibile e nulla è vincolato.
Un secondo aspetto - che però sospetto sia un po' più fuorviante - in cui questa libertà implica anche un po' una solitudine - almeno emotiva - in quanto un legame emotivo costituirebbe un limite alla libertà.
Anche qui si potrebbero aprire centinaia di discorsi ma intanto se c'è qualcosa che mi disturba è proprio quando si giustifica il distacco emotivo con un'esigenza di libertà.
E questo si è verificato anche al contrario, quando questo concetto è stato ribadito come raccomandazione nei miei confronti...
Insomma percepisco una sorta di trabocchetto, qualcosa che non torna...
Come se stessimo parlando di due libertà diverse.
Libertà uguale distacco? C'è chi dice di sì. Forse qualche mistico orientale potrebbe anche disquisire molto - correttamente - in questa direzione.
Ma allora mi chiedo quale libertà può essere quella che non ti permette di legarti affettivamente ad una persona.
Di soffrire o gioire con lui/lei. Di sentirla dentro di te anche quando non c'è fisicamente.
Di assaporare la malinconia della sua assenza.
Di viverla.
Insomma, a volte mi viene di esprimere questo con uno strano gioco di parole:

"Voglio essere libero di non essere libero"...

E questa libertà mi sembra paradossalmente ancora più difficile da conquistare di tutte le altre...

Forse il momento più alto della libertà è l'amore.
Quando ci siamo sentiti veramente liberi, non ci siamo forse sentiti in armonia con quello che girava intorno a noi?
Riuscivamo ad amare ciò che ci circondava.
E allora mi viene da pensare che probabilmente i veri vincoli che limitano la nostra libertà non sono tanto i vincoli esterni che cerchiamo di rimuovere ma sono piuttosto da ricercarsi soprattutto in un'altra direzione:...sono limiti al nostro amore.
Tutti?
Non lo so.
Credo però che sia veramente difficile rendersi conto di quante limitazioni poniamo - inconsapevolmente e forse inevitabilmente - alla nostra capacità di amare.
Allora ecco che la libertà si colora di un altro apsetto.
Libertà uguale amore.
E forse basta così....

mercoledì 26 marzo 2008

Essere albero

Questa mattina, mentre percorrevo con l`auto la solita strada che mi portava al lavoro, mi sono soffermato qualche istante sulle sagome degli alberi che costeggiavano i bordi della provinciale. Non erano ancora comparse le nuove foglie e - come mi accade spesso - sono rimasto ancora una volta in ammirazione dell`intreccio dei rami che si snodano verso il cielo.
Trovo infatti in quella struttura - quella delle querce soprattutto, ma anche di altri alberi - qualcosa di magico che riesce a far risuonare qualche sensazione solitamente zittita e impacchettata dentro di me.
Le sagome scorrevano dal parabrezza ai finestrini laterali e scomparivano dalla mia vista.
Ho ripensato a come rimango spesso frustrato all` idea di non riuscire adeguatamente a ritrarre un albero.
Non sono un bravo disegnatore - e` vero - pero` in particolare trovo del tutto insoddisfacente la mia capacita` di riportare in un foglio di carta la dinamica di quegli splendidi intrecci di geometria e poesia. Trovo goffi, ingenui e disarmonici i miei ostinati tentativi di superare questa sfida.
Ma oggi uno di quei buffi pensieri che vogliono dire un po` tutto e niente mi e` balenato per la mente.
Forse per poter disegnare o dipingere un albero bisogna un pochino essere albero.
Non riesco a disegnare un albero perche` non sono abbastanza albero.
E mi piacerebbe osservare a lungo un albero in modo vero cosi` da diventare un po' albero.
Allora le sue dinamiche mi apparterrebbero un pochino.
Forse riuscirei a sentire in me quella forza, quell` armonia e quella strana comunicazione che anima i suoi rami. Perche` da qualche parte sono convinto che c`e` un po` di albero in ognuno di noi.
Assopito, magari.
Ma albero.
Come mi capita spesso da qui sono andato avanti. Questi pensieri sono a volte per me un cerino in un pagliaio ...
Se in noi c`e` un albero allora forse c`e` tutto.
C` e` un fiore, una montagna, un lago, un tramonto un sole...
E se volessimo veramente ritrarli al meglio forse dovremmo viverli, cioe` dovremmo esserli.
E ci sono anche gli altri, ovviamente.
I nostri amici, i nostri nemici.
Quelli che amiamo e quelli che detestiamo
I simpatici e gli antipatici.
E se funzionasse anche al contrario?
Sarebbe divertente imparare a ritrarli.
Perche` saremmo costretti a viverli almeno un pochino.
E conseguentemente a capirli un po` di piu`...

Forse l`unico modo per capire veramente una persona e`riconoscerla dentro di noi.
Cioe`viverla.

giovedì 7 giugno 2007

Le aspettative

Pensavo al concetto di debiti e crediti.

Mi sembra un po’ che ognuno di noi quando ha delle aspettative implicitamente assuma di avere crediti con qualcuno.

O con qualcosa.

E mi sto convincendo sempre di più che la delusione e’ sempre un errore di valutazione e niente più. Non si può imputare a chi delude. Quando siamo delusi da qualcuno abbiamo valutato erroneamente quella persona: abbiamo sbagliato a farci delle aspettative.

Questo può valere anche per gli oggetti. Se ad esempio io pretendessi che la mia macchina partisse con il serbatoio vuoto non ci vorrebbe molto a capire che sto avendo delle aspettative su quella macchina che non tengono conto della vera sua natura .

Perché è chiaro a tutti che una macchina non parte senza carburante!

Ma se un bel giorno, dopo che ho fatto revisionare la macchina, ho fatto il pieno, e le ho cambiato da poco la batteria, quella stessa macchina non dovesse partire allora potrebbe succedere che mi arrabbierei…! Perché secondo le mie aspettative quella macchina dovrebbe partire!

Mi sta deludendo? Sembra strano affibiare questa potenzialità ad un essere inanimato... ma probabilmente si…

Ovviamente esisterà un motivo reale per cui non parte: carburante sporco, qualche contatto che si è rotto perché usurato e via dicendo…In realtà ho sbagliato io a farmi aspettative perché non ho contemplato tutta la macchina ma solo una parte di essa, cioè la parte che più comunemente sono abituato a considerare.

Ecco, forse ogni volta che qualcuno ci delude significa che non lo abbiamo considerato nel suo tutto. Non abbiamo capito bene alcuni aspetti del suo carattere, della sua personalità e via dicendo.

E forse anche quando non ci delude non stiamo magari commettendo l’ errore di valutare solo una parte di lui/lei/esso?

Così come per la macchina: ogni giorno che parte - e lo attribuiamo al fatto che effettivamente è tutto sotto controllo - stiamo sbagliando valutazione: ne stiamo infatti considerando solo una parte e stiamo ignorando tutto il resto.

Sarebbe bello se potessimo non avere mai aspettative.

Mai.

In questo modo non perderemmo l’occasione di ascoltare ed osservare quello che ci sta intorno. Non avremmo crediti con nessuno da riscuotere. Meno che mai con noi stessi.

Quando dovesse accadere da noi qualcosa che non approviamo invece di rimproverarci, sminuirci o cercare di giustificarci bé...sarebbe bello se riuscissimo ad ascoltarci. Il fatto che abbiamo compiuto qualcosa che non desideravamo è solo un prezioso ed importante indizio di qualcosa che non conosciamo bene di noi. Proprio per questo straordinario. Ed allora quella che chiamiamo delusione diventerebbe un indizio che ci fa capire che abbiamo da imparare qualcosa di nuovo.

Quando amiamo desideriamo essere contraccambiati. Sembra impossibile non avere aspettative in questo senso… Ma se per un attimo pensassimo di fruire dell’amore dell’altro senza averne alcun diritto…cioè solo come un regalo che non comporta a sua volta alcun debito…bé è un po’ un capogiro perché rivoluzionerebbe tutti i concetti di doveri, di fedeltà e via dicendo….eppure qualcosa mi dice che assaporeremmo qualcosa di un’intensità estrema….che può anche far paura!

Mi piace pensare che il vero amore e`a fondo perduto...Quando si entra in questa ottica penso che si riesce ad essere veramente liberi...

Spesso pensiamo di aver dato tanto amore ad alcune persone ma a pensarci bene spesso per noi non era un regalo: era un baratto! O al massimo un prestito! Magari sottointeso...

E sui figli? Come sarebbe bello se quando loro fossero cresciuti riuscissimo a pensare e a far capire loro che se decidessero di non farsi sentire più, di non vederci più , o di non preoccuparsi per qualsiasi nostra difficoltà...be`noi ne avremmo un grandissimo dolore ma loro avrebbero tutto il diritto di farlo perché non abbiamo nessun credito con loro. Ciò che abbiamo fatto durante la loro infanzia, il tempo passato con loro, i sacrifici o le difficoltà, be` tuttolo abbiamo fatto solo perché li abbiamo amati come figli e basta...senza aspettarsi di avere nulla dopo.

Ovviamente qualsiasi cosa dovesse arrivare ci renderebbe felici ma noi non abbiamo crediti: non ci devono nulla!

Non credo che riuscirò mai a fare o pensare fino in fondo questa cosa ma comunque mi piace e mi affascina molto l’idea…oltre a esserne sempre più convinto...

venerdì 30 marzo 2007

Vivere i sogni

Forse dobbiamo imparare a lasciar vivere i nostri sogni, e magari anche le nostre paure. Troppo spesso forse siamo abituati ad associare ad essi l’idea che un sogno o si realizza o si dimentica, si comprime e si controlla. Ed allora è come se avessimo una pila di sogni impacchettati, compressi e chiusi dentro di noi. Mentre avremmo bisogno di dar loro aria, spazio. Che non significa necessariamente realizzarli, anzi. Spesso si può realizzare un sogno senza avergli lasciato abbastanza spazio. Lasciare spazio ai propri sogni significa lasciarli fluttuare, vivere, significa assaporarli, e per questo lasciarli pervadere la nostra esistenza. Forse potremmo anche scoprire che una parte del nostro sogno si è posata su alcuni piccoli ma significativi aspetti della nostra vita. Perché quando si apre un sogno e lo si lascia libero è un po’ come se si permettesse di mostrare non solo la sua parte più esterna, più superficiale ma anche quella che sfiora le nostre passioni più profonde ed interne, quella che è direttamente in contatto con la nostra vera esistenza.

mercoledì 7 marzo 2007

La comunicazione

Ieri ho provato una forte emozione nel risentire una persona che non sentivo da molto tempo.
Era una bella sensazione ma anche unita ad una certa ansia. Poi mi sono reso conto che una parte della mia ansia era dovuta al fatto che non riuscivo a decifrare alcuni aspetti del comportamento di questa persona.
Ad essere più precisi ero in chat ed il fatto di non vedere nel volto il proprio interlocutore si potrebbe pensare che non facilitasse la situazione.
Ma ho l’impressione che - nonostante tutto - questo contasse poco. Anzi, al contrario la situazione poteva eliminare delle barriere di fraintendimento che possono sorgere proprio nel contatto diretto.
Strano.
Ma accade a volte che si riesce ad essere più diretti parlando via mail o via chat piuttosto che l’uno accanto all’altro.
Ma intanto mi rendevo conto che la mia ansia era volta rispetto a degli interrogativi che mi ponevo.
E alla fine questi interrogativi mi sono sembrati un po’ più chiari: la persona con cui interloquivo non dava alcun segno di coinvolgimento particolare relativamente al fatto che ci sentivamo nuovamente dopo un periodo relativamente lungo.
Mi chiedevo se stava celando le sue emozioni in quel momento.
Oppure era riuscita a controllarle sin dall’inizio - le sue emozioni, - in modo tale che l’assenza di contatto con me, anche se prolungata, non le aveva significato grossi cambiamenti interni - almeno cosciente mente?
In quel caso anche il sentirmi nuovamente poteva benissimo essere una cosa piacevole come bere un caffè in mezza mattinata, ma magari poco o niente più.
E – un po' sorprendentemente - per me era un dilemma..
Non ho trovato una risposta bensì un’altra domanda. Ma - per me - cosa cambia?
Cosa cambia tra chi ti ama ma non lo manifesta mai e chi non ti ama?
Cambierebbe qualcosa per me sapere che qualcuno mi ama ma non lo potrebbe manifestare mai?
E sono ancora alla ricerca di una risposta oppure….di un’altra domanda!

martedì 6 marzo 2007

Il batticuore

Ci sono cose che non hanno età.
Forse è impossibile chiedere ad un cuore di battere più forte. O più piano.
Soffro di una leggera ipertensione e sto cercando di convincere il mio cuore a battere più piano, probabilmente ci riuscirò, anzi ci sto già riuscendo con i farmaci.
Ma forse non riuscirò mai a controllare quando il mio cuore decide di battere improvvisamente forte perché ha provato un’emozione.
Perché il cuore è un po’ come un contatore geiger. Quando comincia a “suonare” ha trovato qualcosa, sta vicino a qualcosa di importante. Che spesso non riusciamo a vedere, o forse vediamo camuffato, confuso...
Il cuore non sbaglia mai?
Mi sto sempre più convincendo che è così.
Ma non nel senso che le decisioni impulsive o non meditate siano necessariamente le più giuste da prendere.
Quanto per il fatto che se il cuore segna qualcosa, quel qualcosa c’è veramente, anche se non è facile comprenderlo.
E spesso, proprio perché non riusciamo a vedere oltre i nostri occhi, a volte vorremmo spegnere quel segnale che ci disturba. E’ come una spia accesa che ci sembra guasta. E’ logico, che altro potremmo fare?
Ci sono stereotipi che accettiamo: l’ansia prima di un esame, l’emozione di fronte ad un evento platealmente significativo. Ma molte volte – anche in queste circostanze – il cuore ci sta indicando qualcos’altro e noi, come al solito non riusciamo a far altro che guardare il dito e non guardare la luna…

martedì 30 gennaio 2007

La terza strada

Ho approfittato dell’influenza che quest’anno mi ha preso in forma abbastanza pertinace per terminare il libro di Tiziano Terzani “La fine è il mio inizio”. Il libro mi è piaciuto moltissimo. Alcune riflessioni hanno avviato altre considerazioni dentro di me.
Una di queste è quella che ora, in maniera probabilmente provvisoria, mi piace chiamare la “terza strada”.
Infatti si ha la percezione che la via sulla quale un po’ tutti (occidentali) siamo incanalati è una via che tende a svalutare l’interiorità dell’uomo. Possiamo chiamarlo consumismo, materialismo, americanismo, quello che ci pare, però intanto la percezione che si ha è che l’uomo ha sempre meno tempo da dedicare alla propria interiorizzazione e, conseguentemente, alla propria spiritualità (intesa in senso largo) ovvero al proprio “spessore”. E’ stordito e trascinato via dal vortice di ansie generate dall’ambiente che lo circonda e dal quale sfuggire è forse troppo impegnativo se non quasi impossibile.
A questa “strada” si oppone un modello - più vicino a quello orientale - dove l’uomo cerca il distacco dalle cose terrene e affonda sempre più nella ricerca di sé stesso, nella meditazione, nel silenzio. Questa “strada” mi affascina e mi viene da pensare che abbia molto da insegnare al modello occidentale.
Eppure – e non mi è chiaro se è per un mio limite di comprensione o se per una mia percezione ulteriore – mi sembra di cogliere un limite di quella che è una filosofia di vita che può comunque rappresentare una valida alternativa al modello in cui siamo immersi.
Infatti la mia percezione è che il distacco dalle cose materiali sia associato ad un distacco dalle emozioni intese come limite per la liberazione di sé stessi. Ed in effetti il modello orientale ci mostra un uomo saggio, sapiente, che arriva a controllare il proprio corpo in maniera direi quasi leggendaria e con esso le proprie emozioni.
Ma non esiste forse una forza dell’universo – positiva – proprio nelle emozioni? Non si rischia di tagliare via una fetta della forza viva del mondo che, tutto sommato ha permesso al mondo stesso una sua evoluzione, buona o brutta che sia?
Mi piacerebbe allora che esistesse una terza strada, una via che permetta di vivere intensamente, con la stessa passionalità che si può provare nei momenti di gioie più intense ma non legata ad oggetti, a successi o a cose che fuoriescono da noi.
Voglio dire che ci sono momenti in cui viviamo intensamente una gioia o comunque un emozione intensa “autentica” cioè nel momento in cui percepiamo che questa gioia viene da dentro di noi. A me può accadere – in questo periodo - magari in un momento con mia figlia, in un paesaggio, in una musica… ad ognuno di noi puà accadere in circostanze diverse.
Sarebbe bello se riuscissimo a capire, a percepire e a continuare a vivere la sensazione che la persona, la situazione,l ambiente o l’oggetto che ci è vicino sono solo stati dei mezzi che hanno permesso di far fuoriuscire questo splendore che è dentro di ognuno di noi.
Un nostro lavoro interiore sicuramente è necessario per poter acquisire questa “sensibilità” ma noi siamo solo il terreno da cui sbocciano i semi che sono sotto quando ci sono le condizioni positive.
In questi momenti riusciamo a volte a percepirci come un tutto perché è come se riconoscessimo una radice in comune con quella persona, quella natura, quella situazione, quella musica che ci ha permesso di destare la nostra emozione.
E se fosse così non potremmo sentirci più svincolati dalla presenza fisica di questa o quella persona continuando a desiderarla, ad amarla ma anche ad averla ormai riconosciuta come una parte di noi e per questo ormai indivisibile e imperdibile?

venerdì 12 gennaio 2007

L’infinito e l’infinitesimo…

A volte sembra che scrivere non sia altro che riportare appiattito su un foglio quello che dentro di noi ha degli spessori e delle profondità che si riescono solo a proiettare.
El’unica cosa che è in grado di restituire il volume delle forme originarie è l’intuizione che ci appartiene.
E’ un po’ come una proiezione di un geometra che rappresenta su una carta le viste di una casa. Ma la casa deve essere ricostruita solo dalla capacità dell’architetto di visualizzarla nella propria mente. Forse non visualizza la stessa cosa, anzi sicuramente…però è l’unico mezzo che hanno entrambi di comunicare. E man mano che ci prendono gusto possono magari anche riuscire a rendere sempre più efficace questa comunicazione.
Ma oggi non volevo parlare di questo.
Volevo parlare di due infiniti.
La matematica e la geometria ci insegnano molte cose, anch’esse però spesso appiattite sulla carta.
Ma se si riesce a restituire loro il volume originario allora diventano delle costruzioni fantastiche.
Ci insegnano che esistono due casi principali in cui entra in gioco il segno di infinito, l’otto rovesciato…
Un primo caso è quando una funzione si allontana così tanto che si intuisce tenda d un punto che non sarà mai raggiungibile. L’infinito per l’appunto.
Un altro caso è quando una funzione si avvicina sempre di più allo zero senza mai raggiungerlo. E procede diminuendo sempre la sua distanza ma non raggiungendo mai lo zero. Ovvero rimane sempre qualcosa, sempre più piccolo che può essere a sua volta ripartito in parti più piccole. Linfinitesimo è ciò a cui tende.
La cosa interessante è che ci sono operazioni perfettamente corrispondenti tra i due modelli di infinito: l’infintamente grande e l’infinitamente piccolo
Mi piace fare alcune ipotesi di analogia.
L’infinitamente grande è facile da immaginare: è tutto ciò che l’uomo ha sempre visto al di fuori della sua persona, prima la terra emersa, poi i cieli, lo spazio e poi, man mano che sono aumentate la capacità di esplorazione dell’ambiente circostante questo infinito si è sempre più espanso e la nostra immaginazione ci ha permesso di allocare nell’infinto tutto ciò che noi non sappiamo spiegare. Persino gli dei erano prima nell’Olimpo e poi “nei cieli”.
E non ha caso conosciamo bene la dizione: “Padre nostro che sei nei cieli…”
Una caratteristica che comunque la mente umana può – almeno in parte – immaginare è che procedendo in una direzione oltre le nuvole, il cielo, il sistema solare e via dicendo non c’è fine. Non importa se poi la fisica e gli ultimi sviluppi dell’astronomia ci possano spiegare tante altre belle cose sui vari universi. Per noi – persone comuni – l’universo è infinito e dobbiamo accettare l’idea che si procede in una direzione e non si finisce più…Questo è per noi l’infinito. Un po’ ridotto ai minimi termini, ma è il “nostro” infinito.
Ora immaginiamo l’infinitesimo.
Ma non come tutti possiamo pensare all’atomo, l’elettrone e via dicendo…
Prendiamo un’altra direzione: non verso i cieli ma dentro di noi.
Riusciamo a percepire che anche lì c’è un infinito?
Che le stesse identiche operazioni che compiamo verso l’esterno possono essere fatte verso l’interno?
Non è facile perché è più facile pensare a noi come un’entità finita.
Se una freccia ci colpisse attraverserebbe il nostro corpo da una parte all’altra. Senza problemi. Se invece la freccia la lanciassimo verso il cielo come una navicella spaziale non avremmo la percezione che tornerebbe anoi.
Ma – anche qui – la fisica un pochino ci suggerisce che poi il +infinito e il –infinito coincidono, che lo spazio è sferico…tutte queste cose che ci sembrano sempre fantascienza e su cui si appoggiano suggestivi film. E che sono estremamente corrette.
Allora qui dovremmo veramente fare un grosso sforzo per capire che il finito e l’infinito dipendono solo dal punto di riferimento e così lo sferico e il complementare dello sferico.
La geometria ci insegna che a secondo del punto di riferimento una sfera può essere rappresentata come un piano e viceversa. Usando le coordinate sferiche per esempio. Abbiamo mai visto quei bei mappamondi dove invece della terra c’è il cielo stellato?
Allora…c’è qualcosa che ci suggerisce che potrebbe succedere veramente il contrario: così come è facile immaginare una sfera dentro ad uno spazio infinito (la terra, per esempio nell’universo). Potremmo immaginare un’animazione che lentamente deforma questa sfera e lo spazio che la avvolge diventare finito. E sferico. E la sfera diventa lo spazio e diventa infinta.
In questo modo noi diventiamo infiniti. O, se vogliamo osare un po’ di più, siamo parte di quell’infinito
E magari un Dio, comunque lo vogliamo intendere, è dentro di noi, non fuori.
E se noi siamo infiniti, tutte le azioni, le scelte, le emozioni, la nostra vita….tutto proviene da un infinito.

Che non ci potrà abbandonare mai.

giovedì 14 dicembre 2006

Il ladro di sogni

Cosa c’è più privato e intimo dei propri sogni? Forse nulla.
Penso ai sogni intesi come desideri, ovviamente, ed è’ interessante pensare come la parola “sogno” indichi due cose apparentemente differenti.
Perché un sogno non è solo un immagine, un avvenimento, un oggetto….è l’aspirazione di una sensazione, di una parte di noi.
Finché esistono sogni dentro di noi siamo vivi. Springsteen diceva “E’ una bugia un sogno che non si avvera? O è qualcosa di peggio?”.
Forse invece non è così importante che un sogno si avveri quanto il fatto che si abbia la capacità di sognare.
Un sogno che non si avvera può essere dannoso solo se annulla questa nostra capacità.
E le delusioni, le amarezze, le ferite che riceviamo non sono mai – a mio avviso – così negative se riusciamo a far sì che non ci sottraggano i sogni.
Oggi sono un po’ malinconico, e lo so. Ma mi piacerebbe descrivere la sensazione di quando un sogno si spegne. E’ come se improvvisamente tutti i colori scomparissero e tutto diventasse irrimediabilmente grigio. E un sogno in bianco e nero non può esistere…E così nasce una strana sensazione…quella di avere subito un furto, repentino, improvviso e inaspettato, come un po’ tutti i furti, ma molto più violento e profondo.
Il ladro di sogni arriva di nascosto e lascia un vuoto apparentemente incolmabile. Non esiste più nulla intorno: anche le cose che fino a poco prima erano piene di vitalità risultano svuotate perché di fondo è come se avessero perso un futuro.
Perdere i sogni significa perdere il futuro, per questo ricorda molto il senso della scomparsa, di un lutto.
Fortunatamente nella maggior parte dei casi, lentamente qualche luce comincia ad accendersi e ad emergere dal grigio, ma ci vuole tempo, pazienza e fiducia. E così, con molta lentezza si comincia a ricostruire un altro patrimonio, che sostituisce quello che c’è stato rubato. Ma forse qualcosa non si può riottenere.
Finché il ladro di sogni non rientrerà nella nostra casa, in silenzio, al buio, improvvisamente…Con una maschera sempre diversa, perché il ladro di sogni è anche un abile trasformista. E in un solo colpo ci sottrarrà di nuovo tutto il nostro patrimonio…
E questo si ripeterà tante, infinite volte….
Vorrei incontrare il ladro di sogni… per chiedergli un po’ di cose..
E siccome il ladro di sogni dorme - tra un furto ed un altro - dentro di me, non dovrei fare troppa strada.
Ma il problema è che la strada per arrivare al ladro di sogni si fa in retromarcia….dovrei tornare indietro…
Forse molto indietro…

mercoledì 13 dicembre 2006

Lo scrittore

Mi piacerebbe molto scrivere, ma mi sto rendendo conto che forse non sarò mai uno scrittore… almeno finché ciò che determina questo mio desiderio è la mia grande ansia di comunicare.
Sembra una contraddizione ma mi sembra essere una regola di molte cose nella vita.
Non si riesce ad ottenere spesso una cosa finché questa assume il connotato di qualcosa di irrinunciabile. Al contrario la si riesce ad ottenere solo quando è opportunamente ridimensionata a riportata al suo valore reale.
Allora la mia ansia di comunicazione fa sì che io tenda ad essere sempre conciso: che ogni volta che cerco di esprimere un concetto, anziché prendermi tempo per delinearlo al meglio sento già le spinte del concetto successivo è come se il mio ipotetico interlocutore-lettore potesse sfuggire da un momento all’altro. Ma come si fa a parlare ad un lettore che sta per scappare?

Anzi, in questo modo forse io non sono abbastanza spostato sul lettore ma piuttosto su di me e su quella che rappresenta una mia personale esigenza.
E uno scrittore non si può permettere di essere troppo egocentrico in questo senso.
Non so se tutto questo si applica anche ai miei dialoghi: non so se sono un interlocutore piacevole e cosa significhi questo per me…
Non so se la mia ansia di mantenere il contatto con l’interlocutore può proprio per questo comprometterlo e credo che questo sia il mio cruccio principale.

sabato 30 settembre 2006

Giudizio e libertà

A volte si può raggiungere un certo momento.
In cui tutte le persone che ci circondano sembrano essere così differenti tra loro, da essere simili a singole pennellate di una grande e meravigliosa tela. E così sembra assolutamente improprio qualsiasi confronto. Perché non è possibile stabilire quale pennellata è più importante di un’altra dentro ad un quadro.
Ma c’è di più: le singole persone sono anche come componenti diversissime di un grande paesaggio. Ed a questo punto non è possibile dire chi è migliore di un altro… sarebbe come confrontare una quercia con una rosa. O una collina con uno steccato.
Non voglio dire che tutto sia così perfettamente armonico.
Ci sono persone che evocano in noi solo sensazioni sgradevoli, negative.
Ma nonostante questo accada e continui ad accadere anche quando si raggiunge questo momento,- non ci si sente più migliori di loro. O comunque non lo si pensa. Perché si capisce che fanno parte anche loro di un meccanismo di contrapposizione che permette l’armonia di quel paesaggio.
Forse la loro presenza è indispensabile quanto quella delle persone che invece ci risvegliano le migliori sensazioni.
La cosa più interessante a cui si può arrivare è la sensazione che “hanno un senso” anche i delinquenti, gli assassini, gli stupratori o quanto di peggio esista sulla faccia della terra.
Cioè la consapevolezza che essi non sono “peggior”i di noi.
Se questo pensiero ci spaventa o ci riempie di disappunto allora vuol dire che ancora non abbiamo capito. Perché significa che stiamo ancora confrontando loro con noi. Ovvero che stiamo “giudicando”
Vogliamo fare un esempio più concreto? Se anziché trattarsi di quelle persone intorno a noi parlassimo di un lupo, o un albero che cade sopra ad una persona, o un fulmine che si abbatte su qualcuno saremmo sicuramente più indulgenti.
Perché le sciagure che comporterebbero non ci apparirebbero come nefandezze.
Ma a pensarci bene siamo veramente sicuri che cambia qualcosa?
L’effetto potrebbe essere lo stesso: ogni sciagura spesso si può ricondurre ad una nostra – magari inevitabile – inadeguatezza nel comprendere un fenomeno e, conseguentemente, tutelarci, così può accadere per le persone.
Voglio dire che, conoscendo la fisica dei fulmini, l’uomo è riuscito in parte a tutelarsi costruendo parafulmini. Poi magari non è risucito a prevedere con certezza le condizioni per cui un fulmine si abbatta su una persona per cui ancora si verificano casi di folgorazioni.
Magari in un futuro miglioreremo anche su questo ma intanto siamo in grado –anche se ovviamente con difficoltà per chi ne è interessato da vicino – di accettare situazioni di questo genere.
La stessa cosa per un animale feroce: sappiamo che una tigre può sbranare e abbiamo sviluppato delle armi per difenderci da ciò. Accettiamo che la tigre possa sbranare perché sappiamo che fa parte di un ecosistema e che la tigre sbrana per sopravvivere.

Per le persone invece pensiamo differentemente.
Perché non comprendiamo perché una persona possa e debba comportarsi in un modo che noi definiamo – molto probabilmente a ragione - “disumano” nei casi di grandi scelleratezze e vorremmo – magari inconsciamente – l’eliminazione di questo aspetto che ci disturba di più. Perché – secondo me – confrontiamo troppo quella persona con noi.
Se pensassimo che quella persona è molto, troppo diversa da noi forse ci verrebbe più voglia di capirla, di vivere le sue scelleratezze con la stessa tristezza con cui assistiamo ad una sciagura naturale e con la voglia di far sì che questo non accada mai più. Ma certo non è eliminando tutte le tigri o radendo al suolo tutti gli alberi o levando tutte le nuvole che si ottiene ciò ma intervenendo – dove possibile – direttamente con le nostre capacità.

Ed allora qualsiasi forma di soluzione non avrebbe mai il senso di una vendetta ma solo il senso di una nostra tutela e di un tentativo di armonizzare noi e loro.

Se incarcerare una persona è l’unico strumento che in quel momento si ha per garantire l’incolumità di altre persone allora quella è l’unica soluzione più saggia da prendere, ma dovremmo pensare sempre che stiamo mettendo in gabbia comunque un elemento straordinario di un paesaggio. E che quella può essere l’unica soluzione e quindi “facciamo bene”: in poche parole ne siamo costretti. Ma dovremmo fare di tutto perché possa essere ripristinata l’armonicità del paesaggio.

Certo, tutto questo si basa su un concetto che può essere condivisibile o meno: che ognuno di noi ha comunque delle straordinarie capacità: ogni colore ci serve per comporre un paesaggio ma a seconda di come viene spennellato e di dove viene messo può comporre un paesaggio più o meno armonioso. L’unica cosa che possiamo fare è comprendere qual è in ogni momento la posizione del nostro colore che compone il migliore paesaggio.

Invece c’è un rischio: quello di confondere le persone con ciò che tali persone comportano per noi. Quando identifichiamo una persona con del male (che noi conosciamo perché è comunque presente dentro di noi) allora evidentemente rischiamo di non riuscire a fare veramente ciò che sarebbe più opportuno perché stiamo lavorando per noi, non per il paesaggio.

Quando si è liberi dal concetto di “libero arbitrio” si riesce – a mio avviso – veramente ad amare. Non è una casualità secondo me il fatto che si riesce ad amare in maniera incondizionata più facilmente un bambino che un adulto.
Perché riteniamo che la capacità decisionale di un bambino sia estremamente inferiore a quella di un adulto.
Mi verrebbe da pensare invece esattamente il contrario: un bambino sa cosa vuole perché è a diretto contatto con le sue esigenze ed i suoi desideri.
Per contro un adulto è condizionato da tutte le sovrastrutture che sono state inserite dentro di lui Ogni suo comportamento può essere condizionato dalla sua storia personale. Può provare sensazioni di invidia, gelosia etc… per tutta una serie di vissuti e ciò può condizionare tutte le sue decisioni.
E questa persona la chiamiamo “libera”?
Forse una persona comincia a diventare libera quando si “accorge” di essere prigioniera.
Allora è veramente libera dal concetto di colpa. Può accettare ed ammirare la propria condizione. Detta così sembra una follia, lo so. Però è veramente bello osservare le montagne, le spiagge incantevoli o degli splendidi tramonti.
Che hanno una loro vita e sono un concentrato di presenza divina.
Non potrebbe essere altrettanto bello osservare noi – per primi – e comprendere l’armonia in cui siamo inseriti?
Allora magari ci vedremmo cambiare, migliorare e via dicendo senza che ciò rappresenti un merito per noi. Ci sentiremmo cullati dentro ad un ambiente fatto a posta per noi.
Non sarebbe bellissimo?

martedì 30 maggio 2006

L’artista e il silenzio

Ecco cosa invidio all’artista: la possibilità di comunicare cose che non sono chiare. L’artista è l’unico – con la sua capacità – a poter esprimere a qualcun altro concetti, situazioni, sensazioni ed emozioni, quando queste non sono razionalizzabili.
Il pittore, il musicista, il cantautore, lo scrittore hanno questa straordinario mezzo di comunicazione che è la loro opera. La loro comunicazione riesce a scivolare sotto ai colori, alle note, alle parole.
E poi invece ci sono altre persone – come me - che sono al contrario portate sempre a rendere chiaro il più possibile un problema. Mi irrito o soffro quando non riesco a ricondurre una situazione a qualcosa di inequivocabile nella comunicazione con l’altro.
Non riesco a stare troppo in silenzio perché temo il distacco verso l’interlocutore.
Sono abile a tenere conversazioni – è vero - e a sintetizzare ed analizzare i problemi,. Ricevo a volte apprezzamenti più o meno diretti in proposito, anche riguardo al mio pragmatismo.
Però dietro a questo c’è sempre una sofferenza… perché il mio desiderio sarebbe di avere la sensazione di essere risucito a comunicare non solo ciò che ho detto ma anche ciò che ho sentito.
E soprattutto tutto ciò che è più fantastico e straordinario che ci sia ….l’indescrivibile.
Ovvero le emozioni.
E come si può comunicare ciò se non con qualcosa che tocca direttamente l’animo di chi ci sta vicino?
Mi piacerebbe saper comunicare con il silenzio come una persona una volta mi ha spiegato - con un’affascinante semplicità - succede tra lei e suo padre.

Ma il silenzio può fare paura….perché il silenzio può essere come il buio. Che strano! Tendenzialmente non ho paura del buio, anzi…spesso mi affascina! Ricordo che spesso da piccolo mi divertivo a stare al buio nella mia stanza cercando di suonare il mio organo elettronico. Piano piano il mio occhio si abituava all’oscurità e persino i tenui led dello strumento diventavano delle luci che permettevano di scorgere una buona parte degli oggetti nella stanza.
Ma cos’è che fa paura – normalmente - del buio? E’ la perdita di qualcosa che si conosce…o la paura di qualcosa di sconosciuto che possa comparire? O entrambe?
E qual è allora il fascino del buio?
E se lo dovessi riportare al silenzio?
La mia paura del silenzio è la paura della scomparsa di un legame o la paura della comparsa di qualcos’altro?

venerdì 31 marzo 2006

Le ferite

Sentivo parlare due persone delle cosiddette “ferite” interne. Ognuno lamentava di portare dentro di sé tracce di ferite ricevute da persone presumibilmente amate e successivamente apportatrici di “tradimenti”.
Allora ho pensato – e stavo anche dicendolo ma poi mi sono interrotto – che le ferite (tutte) hanno un senso…un’utilità.
Infatti ci fanno vedere cosa c’è dentro di noi. Ci permettono di controllare che siamo ancora vivi, che scorre del sangue dentro di noi.
E’ un po’ come un vulcano che testimonia – nonostante una sua possibile tragica potenza devastativa- una vita all’interno di ciò che – visto dall’esterno – può apparire come qualcosa di inerte.
Facile a dirsi quando si osserva un vulcano da lontano, non quando si sta nella sua gittata.
Ovvio.
E comunque una ferita per guarire deve aprirsi e stare a contatto con l’esterno.
Così si cicatrizza e si cura. Le ferite più pericolose sono quelle nascoste, quelle che non riescono ad arrivare alla superficie. Quelle che nascondono lacerazioni interne ma non fanno sgorgare sangue.
Quindi sarebbe buono se si riuscisse a far arrivare in superficie sempre tutte le ferite che si hanno.
E anche piangere quando occorre.
Perché non riusciamo più a piangere con facilità quando siamo adulti?
Il bambino non ha di questi problemi. Forse per lui dentro e fuori sono la stessa cosa?
Forse sì.
Se piange dentro, piange fuori…Noi invece piangiamo dentro – a volte – e non permettiamo a questa ferita di uscire, essere curata e rimarginarsi.
Allora se riuscissimo a piangere forse saremmo anche capaci di farci curare e – magari con un po’ di fortuna – anche di apprezzare le funzioni delle ferite (sporadiche e limitate…ovviamente!).

sabato 12 novembre 2005

11/11

11/11: è una data che in passato, un bel po’ passato…per me voleva dire qualcosa.
Era infatti il compleanno di una ragazza di cui mi ero innamorato e a cui mi ero anche dichiarato ma di cui ho poi perso (volontariamente e quasi inspiegabilmente) i contatti.
Questo mio particolare comportamento ha fatto sì che rimanesse in me una sorta di discorso aperto… e la persona, lei, è cresciuta.
Ed è cresciuta in due strade distinte: la mia e la sua….
La mia è la crescita del mio ricordo: il modo in cui fantastico possa essere oggi, inevitabilmente molto simile ad allora, con lo stesso fascino, la stessa grazia, lo stesso entusiasmo.
L’altra strada è la sua che non conosco e probabilmente non conoscerò mai.
Sarei molto curioso di confrontare le due strade ma forse è giusto che rimangano così, verso due direzioni sconosciute.

mercoledì 5 ottobre 2005

Simona

Ieri tornavo per lavoro da Pisa con il treno delle 19. Avevo come al solito il biglietto di 1^ classe e la prenotazione per un posto vicino al finestrino. Quando prenoto, scelgo rigorosamente posti vicino al finestrino: per me è quasi essenziale questo collegamento con l’ambiente circostante e poi adoro il paesaggio in generale.
Però il mio posto apparteneva ad un gruppo di quattro i cui restanti tre erano già occupati da un gruppo di persone abbastanza piene di bagagli. Ho deciso così di spostarmi verso un posto libero più avanti.
Anche questo posto era al finestrino, ma dalla parte opposta della corsia così che aveva solo un posto - vuoto anch’esso- di fronte.
Ho trafficato un bel po’ con il tavolino che si era inceppato e alla fine sono riuscito a tirarlo fuori con discreta fatica. Ho posato il portatile sopra, ho inserito le cuffie, e mi sono preparato alla visione di un film:“The Game”.
Senza l’alimentazione, la batteria del mio portatile avrebbe resistito per un’ora e mezza…più o meno…, le altre due ore ero scoperto. Pazienza…avevo la “Settimana Enigmistica”..

“E’ libero?”
Una ragazza molto giovane , leggermente trafelata. Con un po’ di bagagli al seguito.
“Prego” ho risposto con un tono un po’ troppo ossequioso che tradiva (magari solo per me) la mia soddisfazione.
Lei ha sorriso e ha cominciato a posare i vari oggetti che portava con sé. Si è seduta sopra ad una busta e ad “alta voce” ha detto “l’ho schiacciata!”.
“Mannaggia!” ho risposto sorridendo.
Il film stava per cominciare sul mio PC dopo varie operazioni di caricamento del file, ma ho deciso di posticipare la visione. Ho richiuso il monitor e mi sono messo a fare la Settimana enigmistica. La ragazza ha cominciato a fare un po’ di telefonate con il suo cellulare ed ha posato degli appunti sul tavolino. Per me era impossibile non seguire totalmente la sua conversazione anche perché ero incredibilmente orientato con l’attenzione verso di lei come un ago di una bussola che, seppure distolto delle scosse che riceve, ritorna imperterrito ad allinearsi verso il nord.
Parlava con persone di cui aveva trovato il numero di telefono da qualche parte relativamente a testi universitari che probabilmente doveva comprare usati oppure voleva cambiare.
Si chiamava Simona.
Aveva un forte accento toscano e tutta la sua aria sprizzava una caratteristica che sembra difficile poter racchiudere in una parola: ma era spontaneità.
Aveva i capelli abbastanza corti e gli occhi leggermente affusolati. Non era truccata o forse lo era in maniera impercettibile. I lineamenti semplici: non era bella ma graziosa.
Vestiva una t-shirt un po’ sfiziosa con dei laccetti metallici di colore arancione e verde, dei pantaloni sportivi di tela leggera verde militare e delle scarpe da ginnastica ugualmente verde e arancione. Ero attratto da quell’accostamento deciso e armonioso e ho notato come – chissà perché – perfino la penna bicolore che usava nel prendere appunti aveva gli stessi colori..
Dopo queste telefonate ha preso a studiare degli appunti che aveva su un quadernone. Non capivo se si trattava di chimica, analisi o cos’altro ma c'erano binomi ed esponenti che mi suonavano familiari.
Intrecciavamo a volte gli sguardi e accennavamo a dei sorrisi, subito ritratti: che strano gioco! A volte la osservavo riflessa sul vetro del finestrino ma lei riusciva a percepire la mia intenzione e io distoglievo lo sguardo intimidito.
Avevo l’impressione che trasudavamo entrambi una voglia di parlare ma le parole rimanevano quasi soffocate leggermente sotto un invisibile strato. Mancava un pretesto? Forse anche se ci fosse stato la conversazione poteva comunque affogare.
Mancava piuttosto qualcosa che facesse emergere le parole al di sopra del pelo dell’acqua.
Anzi sembrava ora che il tacere fosse la vera forzatura.
Sapevo che c’era per me il rischio più che reale di poter soffrire dopo di quella sensazione di incomunicabilità (sono fatto così…) ma per fortuna sentivo che le parole che mancavano stavano lentamente risalendo e forse affiorando.
E il pretesto è arrivato: ha messo via il quadernone rassegnata dal fatto che non riusciva a capire un passaggio.
“A quest’ora è troppo difficile” ho esordito io senza grande sforzo.
E da lì è partita la conversazione, semplicissima. Mi sentivo molto libero, nel parlare con lei non dovevo forzare aspetti particolari di me. Era iscritta al primo anno di ingegneria , abitava a Grosseto, faceva ancora su e giù da Pisa, cercava una sistemazione lì.
Parlavo pochissimo di me, ho detto solo che ero ingegnere e che lavoravo nel settore informatico da qualche anno.
Per il resto era lei a raccontarmi di sé. A volte il suo approccio poteva apparire quasi superficiale ma poi mi sono accorto che in realtà ciò era dovuto al fatto che nel parlare seguiva i suoi pensieri con estrema libertà e anzi apprezzavo questa sua schiettezza genuina.
E’ curioso e divertente pensare come la sua estrema semplicità fosse probabilmente la particolarità che mi attraeva di più.
Abbiamo parlato quasi sempre di lei, dell’università di Pisa, del fatto che ancora non aveva preso la patente, del padre che faceva il macchinista di treni… Poi è scesa a Grosseto e mi ha salutato allegramente dandomi la mano, io le ho augurato buona fortuna.
Avevamo condiviso con piacere un’ora insieme e sono rimasto con la sensazione di aver scambiato qualcos’altro al di sotto della nostra comunicazione....
Ma non so bene cosa…



martedì 20 settembre 2005

Il nostro incastro

I problemi rendono la nostra vita corrugata. E proprio in questo modo – similmente a dei pezzi meccanici o a dei sassi di forma irregolare- ci permettono di far presa gli uni con gli altri e al mondo che ci circonda.
Se non ci fossero problemi la nostra superfice sarebbe liscia, regolare, scivolosa…potremmo anche aderire a qualcosa o qualcuno ma solo se liscio e conformato alla nostra sagoma. Diversamente forniamo punti d’appiglio, di attrito e come tali contribuiamo a formare un bello e strano conglomerato…

Che sia chiama universo…

mercoledì 18 maggio 2005

I Problemi

Oggi ho (forse) capito cos’è che spesso scatena la mia più alta forma di ribellione nei confronti degli altri. Avere un problema che non è riconosciuto dagli altri. In particolare da chi mi sta vicino. Peggio ancora se chi sta vicino minimizza. Forse non è tanto avere accanto persone che in un modo o nell’altro non riescono a capire un problema perché non l’hanno mai vissuto come tale o non riguarda la loro sfera di comportamento. La cosa più angosciante è avere persone che sembrano “coprire” il problema e quindi non possono vederlo perché in qualche modo spendono o hanno speso energie per mascherarlo. Magari è un comportamento che spesso e volentieri teniamo un po’ tutti….non nessariamente con intenti così negativi, ma…ecco essere angosciati e avere qualcuno vicino che non percepisce il problema (anche se da qualche parte noi riteniamo che dovrebbe essere in grado di farlo…) sembra essere quanto di più disperatamente irritante possa esserci. Perché la sensazione di solitudine di fronte al problema è in questo caso irrimediabile.
Non so se cercare di capire cosa determini questo atteggiamento in quelli che in questa circostanza sono “gli altri” (e in me quando gioco il ruolo inverso…) sia più proficuo di capire cosa accade in me in questi momenti. Sono due strade diverse che alla fine possono condurre in posti molto prossimi, almeno questo accade spesso.
Ma visto che si può fare tutto…e il contrario di tutto proverò a seguirle entrambe.
Un problema che non deve esistere in generale è un problema è un problema che mette in gioco qualcosa di noi. Responsabilità, colpe, che ci sminuisce. Se da un mio problema automaticamente l’altro si attribuisce delle colpe difficilmente riuscirà a percepirlo perché le sue difese sono volte a negare il problema in sé. Ovviamente non sto parlando del problema in sé, ma dell’accoglienza del problema. E allora come è possibile (se questo è l’unico modo percepito) far accogliere in questi casi un problema? Intanto mi verrebbe da dire che l’unico stratagemma sarebbe di mascherarlo. Ma poi c’è un altro aspetto in gioco: non sono così sicuro di non penare anch’io ad una responsabilità dell’altro nel mio problema..(ecco che le due strade cominciano a convergere…). Sembrerebbe che per poter sentire una persona a fianco a me nel cercare di risolvere un problema dovrei come prima cosa svincolarlo dalla sua responsabilità. E’ possibile sezionare il problema in modo tale da cercare di fornirne almeno una parte “pulita” all’altro?